Negli Anni '70 la Fiat 132 grigio topo di mio padre aveva l'autoradio ma non il mangiacassette.
Nelle nostre gite domenicali, o quando andavamo in vacanza, portavamo dunque il nostro radiolone Grundig C6000 Automatic, che tenevamo sul sedile posteriore o, meglio, sulle gambe di quello che era seduto in mezzo, perché mia madre non ne voleva sapere di tenerlo lei e avere la musica così vicina alla orecchie. Noi, le mie sorelle e io, di questo fatto eravamo ovviamente contenti, sentivamo meglio.

Tra le nostre preferite c'era "Ma mi..." – canzone scritta nel 1962 da Giorgio Strehler (testo) e Fiorenzo Carpi (musica) – che ai tempi ascoltavamo a ripetizione e cantavamo a squarciagola pur senza capirne il senso.
Quell'italiano strampalato che ci faceva ridere...
Ci piaceva davvero tanto questa canzone. Forse per la bella voce della Vanoni, forse perché era in dialetto milanese – quello che mio padre usava sempre e solo quando parlava con il nonno –, forse perché parlava di San Vittore che ci avevano spiegato essere una prigione o, forse ancora, perché c'era una parte in un italiano un po' strampalato (quello parlato da un commissario meridionale) che ci faceva ridere.
Tra le strofe della canzone, oltre al famoso ritornello "Ma mi, ma mi, ma mi, quaranta dì quaranta nott, a San Vittur a ciapàa i bott...", ce n'è una che richiama più di altre la città di Milano. I nazisti – è di questo che si parla – hanno chiuso il protagonista della canzone in una cella di San Vittore (ratera = trappola per topi) e lui da lì sente in lontananza il rumore della sua città:
Sont saraa su in 'sta ratera
piena de nebbia, de frecc e de scur,
sotta a 'sti mur passen i tramm,
frecass e vita del me Milan...
Ecco, "Ma mi..." è la prima canzone che mi ha parlato di Milano. Una canzone triste ma orgogliosa, che si conclude con un perentorio "Mi parli no!" e che è entrata non per caso a far parte del repertorio di tutti i principali cantori di Milano, da Enzo Jannacci a Nanni Svampa.
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