lunedì 9 luglio 2012

Di G8 e della funzione
delle telecamere di sicurezza

Katia, Stefano e Susanna non stavano più nella pelle. Era il luglio del 2001 e tra due giorni avrebbero rotto la solita routine del lavoro in ufficio e sarebbero andati a Genova, dove avrebbero partecipato – tutti e tre per la prima volta – a una grande manifestazione contro i poteri forti, quelli che governano il mondo e ne decidono le sorti senza tenere conto delle esigenze e dei diritti dei più deboli.

«Ci sarà il G8 – dicevano –, una cassa di risonanza fantastica, il messaggio di quelli che protestano farà il giro del mondo».

Con grande entusiasmo alla volta di Genova

Un grande entusiasmo, alla loro partenza. Un sentimento ben diverso da quello che avrebbero raccontato ai loro amici al loro rientro in ufficio, qui a Milano, tre giorni dopo. Faticavano a raccontare, cercavano di capire che cosa era successo ma non ci riuscivano, ricordavano momenti di grande paura e terrore, misti ad altri di altrettanto grande stupore per come si erano messe le cose.

A un certo punto, così avevano racontato, insieme a tante altre persone come loro – che il giorno dopo sarebbero tornate nei loro uffici a fare il loro solito lavoro di routine – si erano trovati chiusi tra due cordoni di polizia, in una stretta via. La polizia avanzava e la pressione e la paura aumentavano in uguale misura. Solo l'apertura di un varco – chissà, forse la polizia era stata attratta da qualcos'altro – aveva evitato che le persone si calpestassero a vicenda nella ricerca disperata di una via di scampo. Loro erano lì solo per partecipare gioiosamente a una manifestazione, com'era possibile che si fossero trovati coinvolti in azioni di guerriglia urbana di questo genere?

Una sentenza contro i capi delle forze dell'ordine

Questa è una domanda che molti si sono portati dentro per tanto tempo e che ancora non ha trovato una risposta convincente. Ma almeno oggi una sentenza ha decretato che qualcuno – cioè tutti coloro che ai quei tempi erano a capo delle forze dell'ordine coinvolte negli scontri di Genova – in quel frangente sbagliò completamente l'approccio a una situazione delicata e degna di grande attenzione. Quanto fu compiuto all'interno dell'ormai famigerata scuola Diaz – dove molti manifestanti che lì dormivano furono sorpresi nella notte, violentemente percossi, minacciati e, come dice la sentenza, senza nessun valido motivo arrestati – è stato oggi riconosciuto definitivamente come reato, e questo è un passo avanti per tutti coloro che credono che con la violenza non si ottenga niente di buono, men che meno se a usarla sia addirittura lo Stato.

Molti sono stati riconosciuti colpevoli e pagheranno per questo. Ma molti altri non subiranno mai le conseguenze delle scelte scellerate che fecero tra le strade del capoluogo ligure. E non pagheranno conseguenze, di sicuro, i politici che indirizzarono in questa occasione l'azione delle forze dell'ordine, coloro che balzati da poco al comando della nostra nazione avevano ritenuto di poter utilizzare Genova come banco di prova per una nuova stagione, quella che avrebbero voluto governare con l'utilizzo del pugno di ferro. Doveva essere come una sorta di avvertimento, Genova. «Sappiate che da questo momento si cambia, adesso ci pensiamo noi a ristabilire l'ordine...», solo che a Genova la forza fu usata in modo vigliacco, contro i più deboli, mentre i veri nemici, quelli che stavano mettendo a ferro e fuoco la città, furono lasciati liberi di sfogare tutta la loro violenza senza essere in alcun modo frenati.

Finalmente un po' di giustizia è stata fatta

Ma ora finalmente, un po' di giustizia è stata fatta. E, soprattutto, qualcuno ha chiesto scusa per quanto accaduto. L'ha fatto l'attuale capo della polizia Antonio Manganelli, che ha voluto al tempo stesso scusarsi con chi ha subito danni – fisici e psicologici – da quella vicenda ma anche ricordare quanto di buono fanno tutti i giorni le forze dell'ordine presenti sul nostro territorio. Sì, perché non bisogna confondere le due cose.

È vero, è sempre difficile restare lucidi e non fare di tutta l'erba un fascio quando ci si trova davanti a un vigile accusato di avere sparato nella schiena, in pieno giorno, a una persona che è a pochi metri di distanza e sta cercando di fuggire. Oppure distinguere tra il particolare e il generale quando una persona muore sotto le mani di alcuni agenti durante un controllo, con alcuni filmati "rubati" che mostrerebbero un trattamento troppo duro da parte degli stessi agenti.


Oppure quando si vedono due poliziotti (in borghese) che distruggono con pugni e calci il viso di una persona anziana che ha avuto la sfortuna di capitare sulla loro strada. O, ancor più, farlo quando si scopre che quei due stessi poliziotti avevano scritto nel verbale, redatto dopo il fatto, che erano stati loro a essere stati assaliti e che si erano dovuti difendere da un'aggressione. Per fortuna erano stati ripresi da una telecamera di sicurezza: se così non fosse stato, l'uomo con il volto distrutto si sarebbe beccato una denuncia e forse adesso sarebbe rinchiuso in una cella.

 

A che cosa servono le telecamere di sicurezza

E' difficile ma bisogna riuscire lo stesso a farlo. Non può, non deve venire a mancare la fiducia nelle autorità. «A far male – ha detto uno dei reduci della scuola Diaz – non sono state solo le botte e le minacce dei poliziotti, ma soprattutto la fine della fiducia nelle forze dell'ordine e nello Stato, che esse rappresentano. Quando chi ti dovrebbe difendere ti attacca senza un giusto motivo, allora non hai più davvero nessuno su cui contare, ti senti completamente abbandonato e vivi nel terrore, perché in qualsiasi momento chiunque potrebbe sconvolgere la tua vita senza doverne rendere conto a nessuno».

Una frase forte, che dovrebbe essere scritta dietro le scrivanie di tutti i capi di polizia, carabinieri, ecc. Perché non può esistere in nessuna parte del mondo civile che le telecamere di sicurezza installate ormai ovunque diventino uno strumento utile a difendersi dai soprusi di chi, invece di fare il proprio dovere di difensore dell'ordine pubblico, approfitta della divisa per sfogare la propria violenza ai danni di indifesi cittadini. Non sono state installate per questo, quelle telecamere.

Le parole di Manganelli sono dunque molto, molto importanti. Anche perché rappresentano un giusto contraltare all'assordante silenzio di tutti coloro che sono stati i veri protagonisti, diretti e indiretti, della scandalosa vicenda legata agli avvenimenti del G8 di Genova. Nessuno di loro ha mai chiesto scusa. Forse perché, e qui sta il problema, sono ancor oggi convinti di avere agito nel migliore dei modi possibile. Il modo migliore per far perdere ai cittadini la (già poca) fiducia nello Stato.


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2 commenti:

  1. Risposte
    1. Anch'io c'ero, per altri motivi ovviamente...
      Non esiste una verità assoluta per il G8, ma probabilmente più verità relative.
      L'unica via d'uscita consiste nella chiara distinzione tra verità relativa e verità assoluta. Quest'ultima è irraggiungibile per l'essere umano; non sappiamo se vi siano altri esseri che l'hanno raggiunta o la possono raggiungere. La debolezza del pensiero umano fa sì che queste stesse argomentazioni ricadano comunque nella sfera del relativo.

      IL VERGIATESE

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