giovedì 30 marzo 2017

Piazza Gae Aulenti e il palazzo dell'esposizione (dei cappotti)


Devo ammetterlo: sono un "anti-grattacieli" quasi del tutto pentito. Continuo a pensare che le città siano più "umane" e più belle quando si sviluppano in orizzontale, più che in altezza.

E che certi torrioni poco abbiano a che fare con la tradizione delle nostre città.

Ma devo ammettere che ogni volta che passo per la zona delle ex-Varesine e dintorni mi stupisco per la magnificenza di quanto è stato costruito in questi ultimi anni.

In particolare, ogni volta che vado in piazza Gae Aulenti rimango a bocca aperta.

Sarà per la grandeur dei palazzi che la circondano, sarà per quel senso di futuro che ti colpisce tra cristalli e strutture ardite, sarà la vista dei vicini palazzi del Bosco Verticale, da molti considerati tra i grattacieli più belli del mondo.

Sarà tutto questo, ma quando sono da queste parti gli occhi mi si spalancano e mi assale un senso di forza che arriva non so da dove.

Quel qualcosa che stona

Ma dopo il primo momento di stupore per tanta magnificenza, ecco che qualcosa viene a turbare la mia vista e, anche se leggermente, il mio equilibrio mentale.

È una cosa che riguarda il grattacielo più alto d'Italia, proprio quello che sovrasta piazza Gae Aulenti. È un palazzo di uffici, come viene certificato dal grande logo che fa bella mostra di sé ad altezze mai raggiunte dalle nostre parti.

Uno splendido palazzo tutto vetri e acciaio, sulla superficie del quale di giorno è possibile vedere riflesso il sole, il cielo, le nuvole. In certi momenti sembra quasi che questo colosso si mimetizzi, cielo nel cielo.

Solo di giorno, però. Perché quando scendono le prime ombre della sera e si accendono le luci dei vari uffici ecco che il gigante non riflette più il solenne mondo esterno, ma mostra senza vergogna alcuna il suo interno, fatto di persone sedute alle loro scrivanie, intente a produrre come tante formichine.

E, di fianco a loro, proprio lungo la parete di vetro che s'affaccia verso l'esterno, l'immancabile attaccapanni con il cappotto appeso.

Uno, dieci, cento, mille cappotti a evidenziare un'esposizione postmoderna da lasciare esterrefatti.

Vabbè, probabilmente non è giusto pretendere che l'arte, in questo caso l'architettura, condizioni la vita quotidiana di chi vi ha a vario titolo a che fare, ma forse questa esposizione di cappotti non è esattamente quello che si immaginavano le superpagate archistar quando pensavano all'impatto delle loro imponenti creazioni sul mondo esterno.

La precisione esagerata della Secessione

Nella Vienna di inizio '900 la storia era ben diversa. L'arte e l'architettura lì erano al loro massimo splendore e condizionavano la vita di chi le fruiva grazie ai dettami della Secessione, la famosa associazione di artisti che raccoglieva, tra gli altri, pittori come come Klimt, Schiele, Moser e architetti come Wagner, Olbrich e Josef Hoffmann.

Proprio quest'ultimo aveva progettato il Palais Stoclet di Bruxelles, uno degli esempi più raffinati del gusto architettonico di quel periodo. Hoffmann era un vero perfezionista e oltre a pensare agli esterni, alla struttura del palazzo, si era occupato anche degli arredi nel minimo dettaglio.

A tal punto che ai proprietari di questo palazzo/museo erano vietate libertà come scegliere una poltrona diversa da quella indicata e anche le saponette, si racconta, dovevano avere lo stesso colore di quello predominante del bagno in cui erano posizionate.

Una situazione limite, ben descritta nel saggio "A proposito di un povero ricco" di Adolf Loos, inizialmente membro della Secessione e in seguito uno dei suoi più irriducibili critici.

Loos racconta che durante una visita dell'architetto alla casa ultimata, questi si era soffermato sulle ciabatte del padrone di casa e:
"Il ricco abbassò lo sguardo sulle pantofole ricamate e trasse un sospiro di sollievo: questa volta poteva considerarsi innocente. Le pantofole erano state realizzate su disegno dell'architetto. E allora ribadì: «Caro architetto, non si sarà mica dimenticato che queste pantofole le ha disegnate lei?».
«Certo che no», tuonò l'architetto. «Ma le ho disegnate per la camera da letto. In questo ambiente lei rovina l'atmosfera con queste due macchie violente di colore, non vede?».

Quelle macchie scure che interrompono una magia

Ecco, senza provare rimpianto per quello che è stato giustamente definito un "tentativo di condizionare la natura e la personalità umana per mezzo della tirannide ornamentale", la sensazione che le macchie scure dei cappotti rovinino l'atmosfera di quel luogo per certi versi magico che è piazza Gae Aulenti non riesco a togliermelo dalla testa.

C'è un'unica consolazione: andiamo verso il caldo, tra pochi giorni i cappotti spariranno e gli attaccapanni resteranno vuoti.

Almeno fino al prossimo ottobre il senso estetico dei più esigenti, in Gae Aulenti, potrà essere appagato anche dopo il calar del sole.


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