domenica 27 dicembre 2015

Quando De Corato era vice sindaco e ce l'aveva coi caloriferi troppo caldi

Riccardo De Corato
Era il 2008. A Palazzo Marino c'era Letizia Moratti.

Stavo partecipando al lancio di un nuovo giornale, un quindicinale delle zone di Milano, e dalla sede centrale ci era arrivata l'indicazione di intervistare, per il primo numero, il vice sindaco milanese Riccardo De Corato.

L'intervista era stata affidata a me, ci ero andato con la caporedattrice centrale del giornale, che lavorava in un'altra città del Nord Italia ed era venuta a Milano per l'occasione.

De Corato ci aveva accolti nel suo grande ufficio di Palazzo Marino: uno stanzone dall'alto soffitto affrescato che aveva quasi nel mezzo la sua scrivania. Era inverno e, come accade anche in questi giorni, l'argomento sulla bocca di tutti era l'alto livello di polveri sottili nell'aria, in poche parole l'inquinamento che stringeva (proprio come stringe oggi) nella sua morsa la città.

«È colpa del riscaldamento»

De Corato aveva detto le stesse cose che ha ribadito oggi – insiema al suo compagno di coalizione, il leader della Lega Nord Matteo Salvini – a commento della chiusura totale del traffico per tre giorni decisa dalla giunta Pisapia: «Le automobili non c'entrano niente con lo smog, è inutile che la sinistra continui a chiederci interventi sulla circolazione dei mezzi in città».

Il vice sindaco di origini pugliesi aveva le idee precise, come le ha oggi, al proposito: «Il problema inquinamento è creato dal riscaldamento. I milanesi devono rendersi conto che bisogna rinunciare a qualche grado, che non si può morire di caldo nelle case e poi pretendere che in città non ci sia lo smog. Lo devono capire, la soluzione è questa, non quelle che riguardano il blocco del traffico».


Quella finestra aperta

Mi ricordo che mentre prendevo appunti mi ero accorto che nello stesso istante in cui diceva queste parole il suo sguardo era andato, quasi con noncuranza, in direzione della finestra del suo ufficio, uno di quei grandi finestroni tipici dei vecchi palazzi che era aperto, spalancato. E nonostante questo lui era in maniche di camicia, in quel momento, e noi – la caporedattrice e io – sudavamo per il caldo presente nella stanza.

Per questo De Corato si era sentito in dovere di aggiungere, sempre con noncuranza: «Lo dico sempre qui in Comune, che bisognerebbe abbassare i caloriferi, qui fa veramente sempre troppo caldo...».

E poi aveva cambiato discorso, senza manifestare il benché minimo imbarazzo.



Mi hanno (ri)rubato la bicicletta



Non vorrei annoiare gli sparuti lettori di questo blog, dicendo che mi hanno rubato di nuovo la bicicletta.

Lo faccio solo perché questa volta non era una "bici cesso", come l'altra volta, ma era una fiammante due ruote, solida e silenziosa. Mi ci ero affezionato, anche se ce l'avevo solo da tre giorni. Sì, è durata tre giorni prima che se la portassero via dal cortile di casa mia.

Al di là dell'aspetto dei tre giorni, che comunque ha sempre il suo bell'effetto, parlo di questo mio nuovo furto subìto perché qualcuno, da una finestra, ha visto il ladro in azione e ha risposto al mio appello "Qualcuno ha visto qualcosa?".

Ecco il risultato, una "tavola" degna del miglior Buzzati, con identikit del ladro e descrizione della situazione. Non servirà a niente, ma credo si tratti di uno dei primi casi nella storia di identikit autogestito e contestualizzato nella storia dei furti di biciclette!




La didascalia recita:

Via xxxxxxxxxxx 17, 23 dicembre 2015, ore 14.00 circa.
Il ladro esce dal portone con la bici.
Ha una corporatura media e un viso ovale. Dimostra tra i 40 e i 50 anni d'età. 
Indossa un giubbotto corto, un cappello con visiera e uno zainetto sulle spalle. Arrivato all'altezza del civico 15, attraversa la strada e appoggia la bici al palo.
Citofona (o finge di citofonare) al civico 14, poi estrae un cellulare di colore bianco e telefona (o finge di telefonare).

Dopo di che, probabilmente dopo aver girato l'angolo, è sparito con la mia bicicletta, una LERI verde scuro, molto scuro, con freni a bacchetta.


L'augurio che faccio al suddetto ladro, è un classico di Antonio Albanese/Alex Drastico (lì si parla di motorino, ma il principio è lo stesso):




venerdì 11 dicembre 2015

L'insopportabile e inutile intrusione delle martellanti offerte telefoniche


Sono in ufficio, sto lavorando, suona il cellulare.

Il numero che appare sul display non è registrato nella mia rubrica, chissà chi mi chiama. Forse un nuovo cliente?

Rumore di sottofondo, come se il mio interlocutore si trovasse in un palazzetto dello sport, con tanta gente sugli spalti a fare cagnara.

Dopo qualche secondo di sospensione ecco una voce, da lontano: «Buongiorno chiamo per conto di xyzsrtysj xoktyizxytoi, le volevo proporre la nostra ultima promozione...».

«Scusi, scusi, si fermi un attimo. Per chi lavora lei? Non ho capito...».

«La chiamo per conto di yhxtaonilert kuytxvelastr, volevo proporle...».

«No, scusi... vabbè... mi dica almeno come ha fatto ad avere il mio numero di cellulare, chi gliel'ha dato?»

«È perché lei è un cliente xxx (nome della mia compagnia telefonica), giusto? Io chiamo per conto di klixtgyzart fhuztkyxtkt per proporle...»

«No, guardi, scusi, la fermo subito, così non perde tempo lei e non lo perdo nemmeno io. Non ho bisogno di niente, non mi serve niente, grazie lo stesso...»

«Ma guardi, la promozione che le proponiamo...»

«No, scusi, ripeto, grazie, non mi interessa, la vostra promozione...»

«Incredibile! No, davvero incredibile...»

«Incredibile che cosa, scusi?»

«Incredibile che neanche stia a sentire quello che devo dirle e mi dice subito che non le serve niente... io vorrei...»

«No, guardi, di incredibile c'è solo la sua insistenza. Lei mi chiama disturbandomi sul cellulare, mentre sono al lavoro, non capisco nemmeno da parte di chi, le dico che non mi interessa quello che ha da dirmi e lei ha anche la sfrontatezza di dirmi che è incredibile? La saluto...»

«No, ma non esiste che non stia ad ascoltare quello che ho da dirle, signor Luca, io vorrei solo...»

«...allora non capisce, non voglio essere disturbato, non mi interessa quello che ha da dirmi. Mi ha chiamato lei, non l'ho cercata io. Grazie e buongiorno»

«Ma io volevo dire che...»

Click


Una scena che si ripete più volte al giorno 

Questa scena, più o meno così, si ripete due, tre, spesso anche quattro volte al giorno. Al cellulare o al telefono fisso. In ufficio e a casa.

Niente contro questi poveri ragazzi (spesso stranieri) dei call center che, di certo sottopagati, sono costretti a sorbirsi gli insulti e le rimostranze delle persone che sono obbligati a disturbare a qualsiasi ora della giornata.

Nessuna pietà, invece, per le compagnie telefoniche che programmano a tavolino questa tortura, senza dimostrare un benché minimo rispetto per chi sta dall'altra parte del telefono.

Se ne renderanno conto, prima o poi?



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