domenica 28 dicembre 2014

Quando a Milano c'è stata la guerra

Anche a Milano c'è stata la guerra. Quando giriamo per la città, per diletto o per lavoro, ci sembra che sia stata sempre così, come la vediamo oggi. Abbiamo la sensazione di esserne i padroni da sempre, ci sembra di conoscerla a fondo in ogni suo aspetto e segreto.
Spesso ci sfugge il fatto che ogni centimetro di terreno della nostra città – che, dicono gli esperti, ha una storia di almeno due millenni – è stato calpestato da milioni di persone, che sono passate o hanno vissuto da queste parti in epoche più o meno lontane.
Senza andare troppo lontani, non ci ricordiamo che questa città, ad esempio, non più di settant'anni fa è stata teatro di guerra e ha subito bombardamenti che ne hanno cambiato in modo profondo la fisionomia.

Abbiamo chiesto alla signorina Liliana, arzilla e simpatica signora ottantenne milanese che vive nel nostro palazzo, di aiutarci a capire come si viveva nella Milano degli anni a ridosso della Seconda Guerra Mondiale. Ecco il suo racconto.

Lo scoppio della guerra

«Sono nata nel 1935 e quindi ho avuto a che fare con la guerra da piccolissima. Il mio primo ricordo sulla guerra è nel '40, quando c'erano le prime radio e c'era quella signora che abitava al quarto piano là nell'angolo e aveva acceso la radio ad alto volume e allora erano tutti lì sulla ringhiera ad ascoltare. E lei a dire: «Forse scoppia la guerra». Allora alzava di più e tutti lì ad ascoltare perché mica tutti avevano la radio. E dopo la guerra è proprio scoppiata.

In cantina avevamo il rifugio anti bombardamento aereo, era aperto non solo per chi abitava nel palazzo, ma era pubblico, le persone che passavano per strada potevano scendere e venire giù. Vicino al portone c'era la freccia, che serviva per le persone che passavano per dire che qui c'era un rifugio. C'era una persona che non mi ricordo come la chiamavano, la guardia... che abitava qui di fianco a me. Quello lì, quando c'era l'allarme passava per tutti i piani, picchiava ai portoncini e diceva: «Bisogna andare in cantina, bisogna scendere in cantina!». C'era una nostra vicina che faceva la camiciaia che diceva «io se devo andare in cantina... che dopo c'ho quattro piani che mi vengono di sopra... invece qui ne ho solo due...». Lei non voleva mai scendere e faceva sempre discussioni con quello.

Io facevo la seconda elementare in via Giulio Romano, spesso suonava l'allarme. Quando suonava l'allarme che era un po' leggera andavamo in cantina a fare la lezione della scuola. Un giorno, siccome al momento di dover uscire c'era il coprifuoco e nessuno poteva rimanere in strada – ogni giorno c'era il coprifuoco alle 10.30/11 di mattina – i genitori sono venuti a prendere i bambini, siam venuti a casa, mi ricordo che io e la mia mamma eravamo in camera e guardavamo dalle persiane chiuse, da cui si vedeva solo la strada, e abbiamo visto passare soldati con il fucile a tracolla che controllavano e se c'era qualcuno che apriva la finestra mitragliavano, pampampam! C'era il coprifuoco, non ci doveva essere più nessuno in strada».

Sfollati dagli zii, a Paullo

«Quando c'è stata la guerra la mia famiglia è sfollata in tutta fretta. Ero piccola, ma mi ricordo i bombardamenti e anche il fuoco che restava dopo. Non era il caso di restare in città. Siamo andati da nostri parenti, vicino a Paullo, ma mio padre è restato a Milano per lavorare, veniva da noi la domenica, in bicicletta. Al lunedì mattina siccome doveva essere a Milano per le 8 al lavoro, si alzava alle 5 e piano piano veniva qui. Un giorno era in ritardo e si è attaccato a un camion. Non so com'è stata, ha sbandato quello là del camion, ha sbandato la bicicletta... insomma, è andato a finire giù nel fosso. Per fortuna che nel fosso c'era poca acqua, ma si è rotto il setto nasale, ha dovuto andare a farsi medicare. Noi l'abbiamo saputo solo la sera del sabato dopo, quando è arrivato tutto incerottato e mia madre gli ha chiesto: «Carlin, ma s'è sucéss?». Non ci aveva detto niente per non farci preoccupare.

Portammo a Paullo con noi tutti i mobili, eccezion fatta per la cucina economica e una credenza dove c'erano le pentole e i piatti, che dovevano servire a mio padre. Ma lui quel mobile lo usava per tutto: da buffet, da ripostiglio, da tavolo per mangiare. Aveva anche un divano, vicino al muro della cucina, che di sera si trasformava in un letto, ma mica come i divani-letto di oggi, eh...

L'altra stanza della casa, invece, era tutta vuota. Ma una notte alle 3 vennero a svegliare mio padre: «Carlin, Carlin brucia la nostra casa!». Era mio zio, che abitava lì vicino. Tutto il quartiere si diede da fare, ma la casa bruciò davvero e quindi la famiglia del fratello di mio padre si trasferì da lui, con i pochi mobili e oggetti che avevano potuto salvare dall'incendio. La camera diventò dunque loro, e fu difficile mandarli via, quando finì la guerra e io e mia madre tornammo a Milano. Noi dovevamo riportare a casa la nostra mobilia, ma lo spazio era occupato da zii e cugini, e loro non se ne andavano. Per fortuna mio padre seppe che si era liberato un appartamento qui vicino e i nostri ospiti finalmente si trasferirono, ma poi per un bel po' di tempo mio cugino non ci ha più salutati...».

Il ritorno a casa con le galline

«Quando siamo tornati a casa, a Paullo avevamo quattro-cinque galline. Allora una o due le avevamo ammazzate e mangiate, ma le altre le abbiamo portate a casa perché una volta non è che si poteva mangiare quello che si voleva, si teneva da conto quello che si aveva. Del pollo si godeva tutto, non si buttava niente, forse solo le unghie e il becco non servivano a niente. Le penne brutte si scartavano, ma con le altre si facevano i cuscini, si prendeva il sangue e si faceva il tortino, si lasciava lì a indurire con la cipolla poi lo si faceva friggere. A me non è che piaceva tanto... Una gallina, da sfollati, mia mamma l'ha ammazzata quando ho fatto la cresima, nel '44. Ci sembrava di essere dei principi, a mangiare pollo, mica come oggi che è una cosa normale. Il sapore di una volta era una cosa particolare, non come quello di oggi. Io che non ho più i denti vado bene anche con i polli di oggi, ma una volta mi piacevano molto di più quelli naturali, nostrani.

Insomma, quando siamo tornati in città dovevamo riportare anche queste galline e non sapevamo come fare. Allora quello che ci ha fatto il trasloco ha detto «Ci penso io!», ha preso il buffet di mia madre, che aveva un sotto e un sopra, e l'ha messo in fondo al carro con le portine aperte in fuori. Dentro ha messo del giornale e ha messo le galline, Ha chiuso le porticine con un po' di corda, lasciandole un po' aperte perché le galline respirassero, e via!
Passiamo il dazio e quello là lo conoscevano perché faceva i trasporti avanti e indietro. «Dazio!» «No, no sta tranquill, 'sti pori milanés chi, g'ha mia niente. Adess su dré a purtai a ca' sua. Gh'è nient, gh'è nient de cuntrulà» «Va bene». Allora via, il carro sta per avviarsi, la gallina non ha mica fatto l'uovo?!? Coccococcodé... Quello là non sapeva più cosa ne aveva in borsa: «Come, te m'è dit che gh'è nient... e la galina?» «Oh Madona, te ste li a guardà per 'na galina che l'à fa il l'euf...». E via di corsa. Me la ricorderò sempre, quella volta lì».

Quella volta che esplose la bomba

«Qualche bomba nella nostra zona è caduta. Lì dove c'è la scuola, dove ci sono adesso le suore, lì c'era un piccolo stabilimento che arrivava fino al numero 21. E poi c'erano le bancarelle del mercato, attaccate alla chiesa. A Milano fino a  poco tempo fa c'erano ancora case crollate per bombardamenti e lasciate lì così. Come in via della Palla, vicino a via Torino, ma anche in piazza Fontana... dove adesso hanno costruito un albergo. Mi ricordo che quando eravamo tornati a Milano andavamo per la città con mia madre e vedevamo scheletri di case che facevano paura, a vederle.

Un giorno, era appena finita la guerra, stavo aspettando una mia cugina che arrivava da Paullo con la corriera. Quando l'ho vista scendere nella piazza, io tutta contenta stavo per correrle incontro quando tutto d'un tratto ho sentito un rumore fortissimo e ho visto qualcosa che cadeva in mezzo alla strada. Mi sono avvicinata per vedere che cos'era e ho sentito che scottava tantissimo. Era un pezzo di una bomba che i ragazzi avevano trovato in un campo e avevano portato in piazza per giocare alla guerra... Non pensavano che potesse scoppiare, ma c'era il sole e si era scaldata e poi era scoppiata. Nessuno dei bambini che stavano in giro si è fatto niente, come per miracolo, ma sedici persone che stavano lì hanno preso le schegge. Tra queste una signora che era fuori da un'osteria, che lucidava le pentole. Due o tre gravi, uno con una scheggia nella coscia, uno nella spalla, entravano da una parte e uscivano dall'altra... E io ero andata a prendere quel pezzo lì, pensavo fosse una tegola caduta dal tetto!

Abbiamo provato tante cose, in quegli anni lì, e io me le ricordo ancora tutte, mi sembra di averle davanti così come le racconto...».


I racconti della signorina Liliana, vedi anche "E quella casetta di ringhiera diventò sempre più piccola".


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